Alcuni secoli orsono, i dogon si insediarono lungo i dirupi della falesia di Bandjiagara-Mali (circa 40 km) dove trovarono l’ambiente adatto alla difesa dagli assalti di tribù ostili. Qui utilizzarono numerose caverne preesistenti (fatte risalire ai pigmei, primi abitanti del territorio) scavate nella roccia e costruirono le loro abitazioni e i granai tra le pietraie e le rocce della parte scoscesa. E fu proprio in quest’area che vennero a contatto con i tellem che tanto influirono sulla loro cultura.
Il villaggio dogon è perfettamente inserito nel paesaggio: tra gli insediamenti e i loro sfondi naturali, si riscontra un avvolgente mimetismo.
La popolazione pratica l’agricoltura su piccoli tratti terrazzati, ricavati lungo i dirupi della falesia, ma soprattutto sull’altopiano e nella sottostante pianura sabbiosa.
I dogon hanno saputo sviluppare una filosofia e un complesso sistema sociale basato su una cosmogonia simbolizzata. Per loro un Dio unico è il creatore di un universo gerarchizzato e rigorosamente ordinato, in seno al quale domina l’idea di un’armonia perpetuamente turbata e ripristinata.
Il più evidente segno esteriore della loro complessa società, che si può vedere in ogni villaggio, è il “toguna”, ossia la testa e il cuore della comunità, la casa della parola, una costruzione-tettoia sostenuta da otto pilastri rappresentanti gli otto geni primordiali.
L’autorità del consiglio degli anziani sovrintende ai numerosi clan totemici del villaggio dogon. I clan sono divisi in lignaggi rappresentati da un capo, sacerdote del culto dell’animale totemico.
Esistono associazioni maschili e femminili. L’iniziazione viene praticata per classi di età.
L’arte dogon, inizialmente ispirata alle opere kurumba e tellem, assunse nel tempo una caratterizzazione, con tendenza al cubismo, tesa a simbolizzare e significare gli aspetti mitici e religiosi del loro mondo e della loro società.