la vita di fratel Silvestro Pia
Santo Stefano Belbo, Cuneo, 26 ottobre 1920 – Burkina Faso, 29 gennaio 2003
Lo “stregone bianco” nacque a Santo Stefano Belbo, in provincia di Cuneo, il 26 ottobre 1920. Fu battezzato con il nome di Ettore e precoce fu la sua vocazione religiosa dal timbro missionario.
Nel 1932 si recò a Chieri dai Fratelli della Sacra Famiglia per proseguire gli studi. Il 9 marzo 1939 emise i primi voti come fratello della congregazione religiosa laicale fondata dal venerabile Gabriele Taborin. Non si laureò in quanto non era portato né alla teologia né alle discipline astratte.
Con sua grande gioia partì il 3 ottobre 1958 per l’Alto Volta, oggi Burkina Faso, con altri due confratelli per aprire un primo insediamento in Burkina Faso dei Fratelli della Sacra Famiglia. Nel 1966, allo scopo di favorire uno sviluppo socioeconomico nella lotta contro la fame, fratel Silvestro venne incaricato di erigere un Centro pilota con indirizzo ortofrutticolo.
La sua destinazione era Goundì, villaggio a pochi chilometri da Koudougou. Così, in una radura ai margini della savana, Silvestro costruisce, in meno di due anni, un agglomerato di sei piccoli edifici che danno vita alla sua missione, una comunità di accoglienza e di lavoro.
Fratel Silvestro spiegò alla gente del posto il suo progetto di lavoro e di speranza, ma la tribù gourounsi lo ascoltò con evidente scetticismo. Comunque, i capi dei villaggi gli donarono ugualmente cinque ettari di terreno e lui promise prima gli orti e poi le case.
Era rabdomante, scoprì l’acqua e dopo aver fatto arrivare acqua ed elettricità diede inizio alla semina prodigiosa: limoni, mandarini, pompelmi, papaia, insalata, cavoli, cavolfiori, patate, fagioli, melanzane, finocchi, peperoni, pomodori, piselli, zucchine… e l’uva, bianca e nera con due vendemmie annuali, in settembre e in febbraio. Nel 1977 si giunse a raccogliere sette tonnellate di grappoli, dai quali si ricavarono 4mila litri di vino.
Realizzò tre centri: Goundì, Laafi-Ziiga e Nong-Taaba, qui raccoglieva i bambini di strada, i ragazzi sbandati e li rieducava, li formava al lavoro, ne faceva contadini, allevatori, saldatori, falegnami e avevano l’opportunità di diventare uomini onesti ed autosufficienti, chiamati a lavorare per il Regno di Dio.
Le iniziative di fratel Silvestro fecero da volano ad una molteplicità di altri interventi sul territorio, anche fuori da Goundì: scavo di pozzi, sistemazione periodica, dopo le piogge, del territorio e della viabilità, piccoli nuclei sanitari, un lebbrosario, scuole, cooperative agricole e di allevamento, centri di artigianato femminile, silos per cereali, mulini per la macinazione e la pratica di essiccazione per alcuni prodotti ortofrutticoli per conservarli e utilizzarli nei periodi di carenza.
Allez-allez, vite-vite. La mattina alzava i suoi ragazzi, orfani, con questo richiamo e adunava tutti al lavoro, al servizio di Dio, in quanto chi si pone il problema della vita non come un giorno di baldoria, ma come un progetto, non ha tempo da perdere.
La sera, al lume della sua lampada a petrolio, oltre a pregare, scriveva ad amici e conoscenti per chiedere aiuti economici al fine di accrescere le attività della missione
Il primo suo segreto: il Crocifisso. Un giorno gli venne donato il crocifisso che per molto tempo era stato sull’altare maggiore del Duomo di Chieri, da dove era stato tolto e posto, in abbandono, in uno scantinato. Il crocifisso di cartapesta era malridotto, corona di spine rotta, piedi rotti… Fratel Silvestro lo riparò e lo portò con sé a Goundì.
Il secondo segreto: l’autobiografia di santa Teresina di Lisieux Storia di un’anima che aveva letto nel 1940, infatti «Con Lei, Dottoressa di Santa Madre Chiesa, non mi sono sviato».
Allestì e organizzò orti, pollai, porcili, una vera e propria cascina langarola in Africa, con un cavallo di nome Cavour. Agronomo e farmacista, dentista e falegname. I suoi quaderni sono una miniera di conoscenze e trucchi del mestiere. Era maestro di agricoltura, insegnava alla gente le tecniche di coltivazione e di giardinaggio. La sua scuola non ha solo educato, ma provocato l’inversione di rotta nell’esodo dalla campagna. Viaggiava con la sua Peugeot 404 e raccoglieva anche le donne partorienti e spesso i loro figli sono nati grazie al suo aiuto prima di arrivare in ospedale.
Tra serpenti e scorpioni che venivano a trovarlo anche nella sua umilissima stanza, fratel Silvestro, dal viso solcato dal sole, dal vento, dalla terra, amava suonare l’ocarina.
Uomo dalle mani callose sempre pronte alla zappa, era un missionario mistico che parlava con il Cristo del crocifisso portato da Chieri.
Fratel Silvestro ha seminato vita e vite in Africa, fra i burkinabè. La vita intesa sia nella sua accezione fisica, materiale sia in quella spirituale; la vite perché il missionario della Sacra Famiglia ha concretamente piantato vitigni nell’arida terra rossa del Burkina Faso.
Ha sfamato intere generazioni. Nessuno si allontanava da lui a mani vuote. Qualcuno l’ha definito la versione maschile di Madre Teresa di Calcutta. Senza dubbio era l’uomo del Grazie: tutto per lui era dono, era Provvidenza. Cristo la vite, lui il tralcio al quale si sono legati migliaia di altri tralci, neri e bianchi che oggi lo ricordano con gioia, consapevoli di aver incontrato sul proprio cammino un santo.
Un metro e 65 centimetri di altezza, ma un colosso nella forza della sua granitica fede che lo spingeva a realizzare realtà grandiose, miracolose. Non mise mai messo in discussione la mano di Dio su quelle opere missionarie: «Da parte mia non ne ho mai dubitato. Mai un istante ho pensato che potesse essere opera mia… non ne sarei stato capace…».
Abbandonato totalmente al Padre, viveva, goccia a goccia il Vangelo e accolse la croce, fino ad amarla, ad abbracciarla. «Per comunicare Dio», diceva, «bisogna averlo conosciuto. Per conoscerlo bisogna che Lui si riveli. Dio non possiamo raggiungerlo con i nostri ragionamenti».
Fratel Silvestro è stato epifania del Volto di Cristo in Africa. Croce sul petto, Vangelo e il Signore nel cuore, egli non ha posto limiti alla sua dedizione missionaria e ha spianato la strada all’accoglienza della Buona Novella in terra di missione. Era un missionario-mistico. Aveva un rapporto con il divino non da teologo, ma da innamorato di Cristo e di Maria Vergine.
Uomo d’azione e di lavoro, uomo di preghiera e di contemplazione. Un uomo di pace, della vera pace: non urlava, non gridava, non striscioni, non marce, ma idee e realizzazioni di vera pace. Un uomo che si è lasciato consumare dall’amore, dalla carità, dall’agape. Ha incarnato in tutto e per tutto il motto dei Fratelli della Sacra Famiglia: «Nella preghiera, nel lavoro e nella carità, la pace». È sorprendente constatare che dove passava fratel Silvestro tutto prendeva vita, prosperava, mentre lui si prosciugava d’amore. Ma non smise mai di sorridere come dimostrano le straordinarie fotografie che di lui restano, dove lo ritraggono scarno, smunto, rinsecchito dalle sofferenze, dalla fatica, dalle privazioni, ma con l’occhio sempre acceso e luminoso.
Lo fecero Commendatore della Legion d’Onore. Tuttavia non lo disse a nessuno, neppure a confratelli e superiori. Era un passe-partout, apriva e apre ancor oggi tutte le porte in Burkina Faso: conosciuto ovunque, fra la povera gente della savana, fra la borghesia e le autorità. Non c’era posto di frontiera del Paese dove il doganiere e il militare non conoscessero Sylvestre, il fratello dei poveri.
Morì il 29 gennaio 2003 di patologia epatica di cui soffriva da anni e con santa Teresina poté ripetere «Io non muoio, entro nella vita». Il funerale venne celebrato un anno dopo la sepoltura, secondo la tradizione gourounsi. Partecipò una fiumana di persone e sono in molti oggi a ricordarlo, sia in Burkina, sia in Italia e sono in molti a desiderare l’apertura del processo di beatificazione.
La morte, compagna quotidiana della vita africana, quando ha incrociato fratel Silvestro Pia, il vignaiolo di Dio, ha fatto un passo indietro. Le esistenze che fratel Silvestro ha salvato non potremo mai calcolarle. Partì dall’Italia con il suo bagaglio di conoscenze che venivano dalla sua terra, le Langhe. Lavorava la terra come un mago agricoltore e dall’arida terra del Burkina Faso ottenne frutta e verdura d’ogni genere.
Quando è morto nel 2003, ha avuto gli onori di un Naaba (Capo) e il corteo funebre che da Koudougou scendeva verso Goundì è stato più volte fermato dalla gente dei villaggi attraversati. Le donne riempivano di foglie e fiori il carro funebre, mentre altre portavano otri ripieni di acqua di miglio, offrendola alla madre terra, per rendere più lieve la terra stessa che sarebbe gravata sul suo corpo. Poi hanno scoccato frecce verso la brousse (savana) per comunicare a tutti che se ne stava andando un uomo, il quale è sempre stato diritto e deciso, proprio come una freccia scoccata e come una freccia ha sempre mantenuto una sola direzione.
Una freccia lanciata da Dio che dalle Langhe piemontesi ha attraversato il Mediterraneo ed è approdata in Africa dove è rimasto per quarantacinque anni, diventando padre e fratello di tutti.