Un giorno la lepre decise di seminare il proprio campo. Ma la terra aveva bevuto con avidità l’acque dei primi temporali e sul terreno, impietrito e cosparso della cenere degliultimi fuochi della savana, scriocchiolavano ancora le dure canne di paglia. Scoraggiata la lepre si sedette in mezzo al campo.
«Una cosa è certa – pensò – le unghie di quelli della mia specie non sono prorpio adatte per l’agricoltura. Eppure anch’io devo poter riempire il mio granaio e far fronte allo spettro della carestia!».
La lepre allora si alzò e andò a trovare l’elefante che aveva incontrato per caso quello stesso giorno, tutto occupato a rotolare dei tronchi verso il fiume.
– Salve Wobgo, ho un affare da proporti.
– Sarà senz’altro un grosso affare per te – , disse Wabgo sospettoso.
– Anche per te vecchio mio. È semplice: a lavoro uguale, guadagno uguale! E poi vai ancora a dire che Soamba non è onesta!
– Si vai a dirlo alla tua amica Sossa, la iena -, replicò l’elefante strizzando l’occhio.
– Oh quella è troppo sciocca, ma con te è diverso.
– Grazie! E cosa mi proponi dunque?
– Il mio campo è tutto da lavore. Potresti aiutarmi?
_ Ho molto da fare con questi alberi. Sono occupato dalla mattina alla sera. Ma potrei lavorare nel tuo campo la notte.
– Va bene, va bene! Io lavorerò il giorno e tu la notte. E poi per il contratto…
– Facciamo come hai detto tu stessa -, interruppe Wobgo, – metà lavoro, metà raccolto.
– Vecchio furbacchione – borbottò la lepre andandosene. – Metà, metà, ma lui non pensa che le giornate sono più lunghe e ben più dure! Wobgo chiede decisamente troppo! – e la lepre se ne andò a trovare l’ippopotamo.
– Salve Jemde, re dei fiumi! Ho un affare da proporti. A buone condizioni, s’intende. Si tratta del mio campo. È urgente: sono in ritardo con i lavori; la stagione delle piogge sta per arrivare e non ho ancora seminato. Vuoi aiutarmi?
– E perchè no? – disse l’ippopotamo.
– Poichè la gente della mia razza, secondo il costume degli antenati, dorme di giorno, io lavoro di notte, tu di giorno. Così il primo campo, seppure grande, sarà presto sistemato. Ci divideremo il miglio in parti uguali. Sei d’accordo?
– Va bene disse Jemde, che non era loquace. E con il suo passo massiccio si diresse verso il campo della lepre.
– Dì a tua moglie di portarmi da mangiare – aggiunse quello zoticone che non dimenticava mai se stesso.
Jemde lavorò sodo tutta la giornata. Scavò, rigirò la terra con la sua grozza zappa, senza fretta, ma senza fermarsi un solo istante a tirar fiato. Era infatti così forte che non sentiva la fatica. La lepre, appoggiata a un albero, con un occhio sorvegliava il suo operato e con l’altro dormiva. All’ora del tramonto, senza dire una parola e con il suo passo sempre uguale, l’ippopotamo se ne andò a fare un bagno.
Puff! La lepre sentì la grossa mole cadere nell’acqua e si svegliò di colpo. Ed ecco dalla foresta arrivare l’elefante, l’enorme boscaiolo con l’ascia in spalla.
– Perbacco – fece con meraviglia. – Non hai proprio perso tempo! Non ci crederei se non vedessi la cosa con i miei occhi.
– È forse la prima volta che ti capita di cogliere in fallo la tua seggezza? – fece la lepre in tono canzonatorio. – Eh si, messere boscaiolo: se non ti dispiace, la lepre e quelli della sua razza, hanno l’agilità. Eccoti ora a te! Io me ne vado a dormire, sono stanca morta!
L’elefante lavorò tutta la notte. Scavò, rigirò le zolle, le sbricilò con le zanne, seppellì i sassi con il piede potente.
E quando il primo raggio di sole guizzò nel cielo, come il sasso d’oro di Dio, Wobgo, lavoratore placido e scrupoloso, se ne andò nella sua radura a rotolore di tronchi d’albero verso il fiume.
Giorno dopo giorno e notte dopo notte, il grande campo della lepre venne lavorato e seminato senza che essa lo toccasse con la punta di un solo dito.
Poi arrivò il momento del raccolto. Wobgo per primo notò che il miglio era maturo e si propose di raccogliere la sua metà.
– Certamente, certamente, – disse la lepre. – Ma la metà e ben poca cosa per un grande mangiatore come te.
– Dico la metà perché è nel nostro contratto. Ma sono disposto anche ad accettare tutto! -, disse Wobgo strizzando l’occhio con malizia.
La lepre non si fidava di lui perché sapeva che era furbo.
– Ebbene! Ti lancio una sfida e ti dò l’occasione di guadagnare tutto! Ti renderai conto che sono dura quando occorre, so anche stare al gioco. Tu prendi questa corda per un capo, io la prendo per l’altro e quando griderò «Tak’gna» tireremo tutti e due.
Chi vincerà, si prenderà tutto il raccolto.
– E tu credi di vincere?-, esclamò Wobgo, che si divertiva un mondo per l’impertinenza della piccola Soamba.
– Corro a impugnare l’altra estremità della corda -, disse la lepre. – Mi raccomando, aspetta che io gridi. La lepre parti a tutta velocità verso la riva del fiume, dove trovo Jemde. Gli gettò il campo libero della corda tra le zampe ed un fiato gli disse:
– Sai, il miglio è maturo! Ti dò l’occasione di guadagnarlo tutto. Propongo una scommessa. Tu tiri questa corda per un capo. Io tiro per l’altro. Il vincitore si porterà via l’intero raccolto.
L’ippopotamo era così frastornato che non ferrò subito. D’altronde aveva un’intelligenza lenta. Ma era certo che non avrebbe perso la scommessa con quella mingherlina dalla parola facile. Acconsentì dunque con un cenno del capo.
– Tak’gna! -, gridò allora la lepre. E Wobgo dalla sua radura e Jemde dall’altra sponda del fiume si misero a tirare la corda a più non posso.
E mentre due tiravano, sbuffavano, sudavano, puntavano i piedi al suolo, fumavano e brontolavano come due forsennati, la lepre, che aveva combinato tutto, raccoglieva in fretta il suo miglio e se la svignava per sentieri nascosti con i cesti pieni.
Quando, dopo una settimana di furiosa lotta, l’elefante e l’ippopotamo, sfiniti, si incontrarono, ognuno chiese all’altro cosa diavolo facesse legato all’estremità di quella corda. Il campo era vuoto, la messe raccolta e la lepre… Sparita.